Newey come Byrne, Horner come Briatore, Red Bull come Benetton, Dietrich Mateschitz come Luciano Benetton. Storie parallele di genio e di passione. Parabole di una vittoria già scritta. Due marchi entrati dall’esterno nel circus della Formula 1. Uno veste migliaia di persone, l’altro spopola tra i drink. Interessi lontani anni luce dal mondo delle corse, eppure l’epilogo è identico: entrambe le aziende hanno “indossato” la corona iridata nel Mondiale costruttori e in quello piloti. Roba da matti, direbbero gli addetti ai lavori, quelli cresciuti tra cilindri e sospensioni, respirando l’odore “inebriante” della benzina, con le mani annerite e sporche di grasso, come fosse crema idratante. Alla fine però è la pista ad emettere il verdetto. E l’asfalto ha detto sì. Una scelta vincente, quindi, al di là di ogni scetticismo.
Sorriso da simpatica canaglia, alto ed elegante, l’austriaco Dietrich Mateschitz, “Didi” per gli amici e in azienda, da più di vent’anni colleziona successi. Da quando, nei primi anni Ottanta, ha scoperto a Hong Kong una bevanda energetica usata dai camionisti per stare svegli nei viaggi. Era il Krating Daeng, Toro Rosso in thailandese, Red Bull in inglese.
Il colosso multinazionale approda in F1 nel 2004, a spese di una Jaguar in profondo rosso. Nel 2005 arrivano Christian Horner e Adrian Newey, il braccio e la mente della favola Red Bull. Da qui in poi è un continuo crescendo, con risultati sempre più positivi e incoraggianti. Nel 2006 il primo podio a Monaco, con David Coulthard, poi la scalata nelle classifiche a punti, fino all’exploit di quest’anno, con la vittoria di entrambi i titoli. Nel 2009 il preludio all’attuale consacrazione: il team è l’unico a tenere testa allo strapotere della Brawn GP.
Un dominio netto, al limite della razionalità e della follia per le decisioni prese e le innovazioni portate in pista. E poi la scommessa sui giovani talenti, come Sebastian Vettel. Il tedeschino ha esordito nel team satellite della Toro Rosso, ma Horner e company hanno fiutato la stoffa del campione richiamandolo, nel 2009, sul sedile della scuderia madre.
Un destino già scritto, potremmo dire. Una parabola iniziata sulle stesse orme della Benetton, i loro predecessori. Uomini diversi, piloti diversi, storie diverse, certo, ma il finale è lo stesso. L’azienda tessile entra nel mondo delle corse nel 1983, come sponsor del team Tyrrell. A fine 1985 poi acquista le scuderie Toleman e Spirit, fondando un suo team: la Benetton Formula. Da qui inizia una carriera di trionfi, con in bancheca 27 gran premi vinti, due Campionati del Mondo piloti con Michael Schumacher nel 1994 e 1995 e un Campionato costruttori nel 1995.
Un “giocattolo perfetto” giostrato da Flavio Briatore. Un altro che a gestire non teme confronti. Un altro cacciatore di teste. È stato lui ad ingaggiare nel 1991 a Monza il sette volte campione del mondo, allora ancora in tenera età, strappandolo alla Jordan.
Una monoposto, quella della Benetton, nata sotto le intuizioni, le geometrie e i colpi di matita di Rory Byrne. Dalla B186 alla B193, tanto per fare alcuni esempi. Vetture che portano in bacheca i primi successi del team e di Michael Schumacher. Un percorso di sviluppo e dedizione, di guizzi e astrazioni, culminato con la B194 e la B195, i due gioielli di Byrne, che consentono al team di laurearsi campione del mondo costruttori e piloti.
Red Bull come Benetton, quindi. A distanza di 15 anni la storia si ripete.
Vincenzo Bonanno
(fonte sportmediaset.it)
http://www.sportmediaset.mediaset.it/formula1/articoli/articolo47053.shtml
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