Lotus, Virgin, HRT: tre team, un unico flop

I nuovi team sono una vergogna“, aveva tuonato il boss della F1 Bernie Ecclestone quando mancavano ancora due gare alla fine del campionato. “Non hanno fatto niente per noi. Dobbiamo sbarazzarci di alcuni di questi incapaci“. Effettivamente le tre new entry non hanno fatto benissimo. Ultimi tre posti in classifica, nemmeno un punto all’attivo. Una mancanza di risultati imputabile all’eccessivo divario tecnico che separa Hispania, Lotus e Virgin Racing dalle altre scuderie. Carenza di mezzi, di budget, zero esperienza. Uno scenario sicuramente prevedibile prima dello start stagionale. Eppure i tre team hanno avuto l’ok della Fia per entrare nel circus.

Andiamo a scoprire, allora, quali sono stati i peggiori e i migliori risultati ottenuti da tutte e tre le new entry.

Punti classifica piloti: 0
Punti classifica costruttori: 0
Miglior piazzamento in gara: Kovalainen 12° in Giappone, a un giro
Passaggio alla Q2 in qualifica: Malesia (15° Kovalainen – Lotus-Cosworth – e 16° Glock – Virgin-Cosworth) e Belgio (16° Kovalainen e 17° Glock)
Minor distacco in qualifica: + 0.989 decimi dal leader nella Q1 in Malesia
Maggior distacco in gara: 5 giri in Australia, Malesia e Canada; 9 giri in Brasile
Maggior distacco in qualifica: + 11.868 secondi dal leader nella Q1 in Canada, con Chandhok (HRT-Cosworth)
Affidabilità: 47 ritiri di cui 40 per motivi tecnici
Gare completate da tutti e sei i piloti: Ungheria e Brasile
Gara peggiore: Monaco, con tutte e sei le monoposto fuori gioco
Gare a pieni giri: 0

Insomma, un’annata con tante, tantissime ombre e poche luci. Certo, lo spessore tecnico delle monoposto è di gran lunga inferiore rispetto alla concorrenza. Ed è qui che ha origine il gap abissale. Per tutti e tre i team, comunque, c’è ancora tanto da lavorare.

La Virgin e la HRT sembrano davvero in alto mare. E anche i piloti, c’è da dire, non sono granché. Bruno Senna sarà sì il nipote del grande Ayrton, ma in pista conta ben altro che la parentela. E il pilota dell’Hispania non è nemmeno l’ombra del tre volte campione del mondo.

I progressi migliori li ha fatti la Lotus. Magari spinta dai ricordi e dalle vittorie del passato, dalla voglia di riviverli e ripeterli, pensando ai tempi di Jim Clark, di Emerson Fittipaldi, ai primi successi iridati con Stirling Moss. Il 12° posto di Heikki Kovalainen a Suzuka ne è la conferma. Forse anche per questo Bernie l’ha considerata “l’unica scuderia che sarebbe bene tenere per la prossima stagione“.

Se lo merita, per il nome, per la storia, se ancora vale qualcosa.

Vincenzo Bonanno

Migliorare la tattica: ecco la ricetta per guarire il Cavallino

Fernando Alonso

Adesso è il momento di rimboccarsi le maniche. Ammessi errori e colpe, ora tutti attendono il riscatto. Certo, a Maranello la Ferrari sta lavorando duro per preparare uno monoposto vincente in vista della prossima stagione. Ma c’è da migliorare pure la tattica.

Quel mondiale svanito all’ultima gara brucia ancora tanto nel cuore dei tifosi ma anche degli uomini in rosso. Sembrava ormai fatta, ancor di più dopo le qualifiche di Abu Dhabi.  Forse al muretto erano fin troppo sicuri di vincere, l’iride aveva ormai preso la via di Maranello. E invece, quando meno te l’aspetti, quando già inizi ad assaporare il sapore della vittoria, è arrivata la doccia fredda.

Se Alonso avesse perso il titolo in Corea o Brasile in tanti avrebbero detto: pazienza, è stata una bella lotta, intensa e avvincente, tutt’altra cosa rispetto alla noia dell’anno scorso. Ma perdere proprio all’ultimo atto sa davvero di beffa. La Ferrari è scivolata su una buccia di banana. E adesso piovono critiche e richieste di epurazione. Inutili e ingenue.

Non è l’impostazione di gara da rivedere ma la capacità di reagire con prontezza. Una cosa è la strategia infatti, un’altra la tattica. Il filo che le divide è sottile, ma la differenza sostanziale. La prima detta il comportamento da seguire in corsa, stabilito a tavolino nel pre-gara, la seconda invece riguarda le scelte e le manovre da compiere in corsa per adeguarsi alle situazioni.

L’idea di preoccuparsi solo di Webber non era così sbagliata prima del via, considerato il distacco in classifica. Quello che è mancato è stata piuttosto la reattività, la capacità d’improvvisare, di uscire da quegli schemi stabiliti a monte: il non capire che l’ingresso della safety car al primo giro aveva cambiato le carte in tavola.

Forse il nodo sta proprio qui: la Ferrari è una squadra con tante teste pensanti, forte dal punto di vista analitico ma carente su quello decisionale. Nella Formula 1 di oggi bisogna saper leggere la corsa attraverso i tantissimi episodi che si verificano ad ogni giro. Come in una campagna di guerra.

Una tattica vincente infatti va improvvisata sul campo.

A sentire queste parole forse verranno i brividi a leggende del calibro di Tazio Nuvolari, Gilles Villeneuve, Ayrton Senna. Piloti per cui contava solo la passione e la velocità in pista. Piloti che non conoscevano paure e tatticismi, ma andavano sempre e solo oltre il limite.

Tempi diversi certo, ma per una volta forse tutti vorremmo tornare un po’ indietro.

Vincenzo Bonanno

Red Bull come Benetton, storie di “Vite Parallele”

La festa Red Bull

Newey come Byrne, Horner come Briatore, Red Bull come Benetton, Dietrich Mateschitz come Luciano Benetton. Storie parallele di genio e di passione. Parabole di una vittoria già scritta. Due marchi entrati dall’esterno nel circus della Formula 1. Uno veste migliaia di persone, l’altro spopola tra i drink. Interessi lontani anni luce dal mondo delle corse, eppure l’epilogo è identico: entrambe le aziende hanno “indossato” la corona iridata nel Mondiale costruttori e in quello piloti. Roba da matti, direbbero gli addetti ai lavori, quelli cresciuti tra cilindri e sospensioni, respirando l’odore “inebriante” della benzina, con le mani annerite e sporche di grasso, come fosse crema idratante. Alla fine però è la pista ad emettere il verdetto. E l’asfalto ha detto sì. Una scelta vincente, quindi, al di là di ogni scetticismo.

Sorriso da simpatica canaglia, alto ed elegante, l’austriaco Dietrich Mateschitz, “Didi” per gli amici e in azienda, da più di vent’anni colleziona successi. Da quando, nei primi anni Ottanta, ha scoperto a Hong Kong una bevanda energetica usata dai camionisti per stare svegli nei viaggi. Era il Krating Daeng, Toro Rosso in thailandese, Red Bull in inglese.

Il colosso multinazionale approda in F1 nel 2004, a spese di una Jaguar in profondo rosso. Nel 2005 arrivano Christian Horner e Adrian Newey, il braccio e la mente della favola Red Bull. Da qui in poi è un continuo crescendo, con risultati sempre più positivi e incoraggianti. Nel 2006 il primo podio a Monaco, con David Coulthard, poi la scalata nelle classifiche a punti, fino all’exploit di quest’anno, con la vittoria di entrambi i titoli. Nel 2009 il preludio all’attuale consacrazione: il team è l’unico a tenere testa allo strapotere della Brawn GP.

Un dominio netto, al limite della razionalità e della follia per le decisioni prese e le innovazioni portate in pista. E poi la scommessa sui giovani talenti, come Sebastian Vettel. Il tedeschino ha esordito nel team satellite della Toro Rosso, ma Horner e company hanno fiutato la stoffa del campione richiamandolo, nel 2009, sul sedile della scuderia madre.

Flavio Briatore e Michael Schumacher sul podio, ai tempi della Benetton

Un destino già scritto, potremmo dire. Una parabola iniziata sulle stesse orme della Benetton, i loro predecessori. Uomini diversi, piloti diversi, storie diverse, certo, ma il finale è lo stesso. L’azienda tessile entra nel mondo delle corse nel 1983, come sponsor del team Tyrrell. A fine 1985 poi acquista le scuderie Toleman e Spirit, fondando un suo team: la Benetton Formula. Da qui inizia una carriera di trionfi, con in bancheca 27 gran premi vinti, due Campionati del Mondo piloti con Michael Schumacher nel 1994 e 1995 e un Campionato costruttori nel 1995.

Un “giocattolo perfetto” giostrato da Flavio Briatore. Un altro che a gestire non teme confronti. Un altro cacciatore di teste. È stato lui ad ingaggiare nel 1991 a Monza il sette volte campione del mondo, allora ancora in tenera età, strappandolo alla Jordan.

Una monoposto, quella della Benetton, nata sotto le intuizioni, le geometrie e i colpi di matita di Rory Byrne. Dalla B186 alla B193, tanto per fare alcuni esempi. Vetture che portano in bacheca i primi successi del team e di Michael Schumacher. Un percorso di sviluppo e dedizione, di guizzi e astrazioni, culminato con la B194 e la B195, i due gioielli di Byrne, che consentono al team di laurearsi campione del mondo costruttori e piloti.

Red Bull come Benetton, quindi. A distanza di 15 anni la storia si ripete.

Vincenzo Bonanno

(fonte sportmediaset.it)

http://www.sportmediaset.mediaset.it/formula1/articoli/articolo47053.shtml